SINDACATO

 

La fine del lavoro.
Tendenza in essere o falsa rappresentazione?
di   Carmine Valente *

Che fare

In questi anni in cui la sinistra nelle sue più varie declinazioni sembra essersi avviata ad avere un ruolo marginale, più volte si è riproposto il mitico interrogativo: “Che fare?”
Questo interrogarsi, spesso generoso, non ha invertito la tendenza al declino, ma proprio perché privo di efficacia ha contribuito ad aprire processi di revisione che hanno portato la sinistra storica, sia nella variante comunista che in quella socialdemocratica, a fare piazza pulita non solo delle incrostazioni autoritarie staliniste, proprie di questa tradizione, ma a recidere alla radice il legame con la storia e le idee di emancipazione e di liberazione del movimento dei lavoratori.
L’ansia del modernismo che ha animato questa revisione non ha traghettato la cultura di sinistra verso nuovi lidi rivolti al futuro, ma ha fatto ruotare indietro le lancette della storia, approdando al liberalismo. Ciò non ha rappresentato un semplice ritorno alla situazione precedente, quando pur in una situazione in cui i lavoratori vivevano una condizione incommensurabilmente peggiore dell’attuale, esistevano i presupposti per tessere quella trama di organizzazione e di relazioni sociali che approdarono alle lotte di emancipazione dell’ottocento e del novecento.
Le condizioni che consentirono quella storia furono date da quel incrocio virtuoso tra forze oggettive, la classe operaia di nuova formazione, e la maturazione soggettiva della coscienza del proprio sfruttamento come fatto sociale e di classe e non come semplice condizione personale.
Le prospettive che si hanno oggi sono diverse, non solo perché la storia non percorre mai la stessa strada, ma perché diverse sono le condizioni oggettive e soggettive del mondo del lavoro.
La realtà, perlomeno come essa viene raccontata da sociologi del lavoro, politici ed intellettuali, ci parla dell’automazione, della scomparsa del lavoro manuale e dei lavori faticosi, della fine del lavoro. Ci rappresenta il lavoratore come portatore di interessi singoli che si rapporta su un terreno di parità con il proprio datore di lavoro, relegando la difesa degli interessi collettivi ad un sindacato marginale nella contrattazione e forte come soggetto di mediazione e controllo. L’uomo comune, così come viene definito dal sistema dei media e dalla rappresentazione onirica della pubblicità, unico vero canale culturale per la formazione del senso comune, è un soggetto che si autodefinisce nella società in relazione ai beni di consumo che possiede e alla parossistica cura del corpo ad immagine e somiglianza del divo di turno. Il processo di solitudine nella moltitudine impedisce alle persone di definirsi in relazione ai propri rapporti sociali. Il lavoratore non si riconosce lui stesso come lavoratore. Se questa è la situazione o parte di essa, la domanda utile e necessaria da porsi non è “che fare”.

Chi siamo      

Qualsiasi progetto che si confronti con la gestione della società, sia che persegua il mantenimento dello “status quo”, sia che abbia l’obiettivo di un suo cambiamento, non può fare a meno di interrogarsi sul blocco sociale che lo sostiene.
Per questo è necessario interrogarsi non sul “che fare”, quanto piuttosto chiedersi “chi siamo”; ovvero quali sono le forze reali che hanno interesse ad un progetto di cambiamento; definirne la dimensione strutturale, la composizione di genere, la distribuzione territoriale. L’inserimento nei settori produttivi e nei servizi, la capacità di reddito, la stabilità o la volatilità del rapporto di lavoro.

Premessa alla analisi dei dati

La letteratura di questi ultimi vent’anni sul mondo del lavoro, come abbiamo già accennato, ha steso una pesante coltre ideologica per dimostrare che i lavoratori sono oramai una categoria residuale nella stratificazione sociale. Oggi nel cuore della crisi, il lavoro dato per superato ed estinto trova nuovamente la ribalta con la drammaticità della Cassa Integrazione e dei licenziamenti. Ciò nonostante la condizione dei lavoratori sembra trovare ascolto e dignità solo grazie all’azione esasperata dello sciopero della fame e delle dimostrazioni eclatanti che mettono a repentaglio la stessa vita dei lavoratori. La crisi ha spazzato via la coltre ideologica che voleva cancellare il lavoro, mostrando sia la condizione miserevole del salario operaio e sia, nel momento che il lavoro scompare davvero, il gran numero di lavoratori ancora applicati nella produzione e nei servizi.
Vi è un esercito di lavoratori disarticolato tra lavoratori stabili e precari, tempi pieni e part-time, tra lavoratori tutelati dai contratti e lavoratori a nero. Stratificati a parità di lavoro con redditi diversi tra nord e sud, tra la grande fabbrica e la piccola impresa, tra uomini e donne. Conoscere questa galassia è il primo compito. Averne il quadro in termini di addensamenti numerici tra le varie sezioni, sarebbe un primo e fondamentale passo per liberarsi delle incrostazioni ideologiche, prendendo coscienza della grande potenzialità strutturale del mondo del lavoro. Passaggio indispensabile per riavviare quel lavoro di inchiesta che dovrà servire non solo a definire nel dettaglio le condizioni materiali dei lavoratori, ma aiutare anche a comprendere la soggettività dei nuovi bisogni.       

Alcuni dati

Situazione della forza lavoro al 1° trimestre 2009.                     

Totale occupati            22.966.000  di cui   
Lavoratori dipendenti     17.169.000
Lavoratori indipendenti   5.797.000

Un primo dato di una certa rilevanza si può trarre già dalla semplice rappresentazione delle percentuali di incidenza dei lavoratori dipendenti sul totale della popolazione residente. La popolazione residente alla stessa data (febbraio 2009) si è attestata a 60.088.880, pertanto i lavoratori dipendenti rappresentano il 28, 57% della popolazione, dato peraltro in calo sensibile rispetto al III° trimestre 2008, quando l’incidenza ammontava al 29,7%, mentre i lavoratori indipendenti non riescono a raggiungere il 10%, fermandosi al 9,64%.
Peraltro questi dati andrebbero rivisti tenendo presente che una parte significativa di lavoratori indipendenti lo sono solo formalmente sulla base della posizione giuridica, ma in realtà sono assimilabili ai lavoratori dipendenti. Mi riferisco sia alle categorie artigianali che professionali che lavorano esclusivamente per un solo committente.
I lavoratori dipendenti permanenti (tempo indeterminato) sono 15.134.000 ovvero il 25,18% della popolazione residente; il 65,89 dei lavoratori occupati (dipendenti + indipendenti), l’88,14% dei lavoratori dipendenti.  Con tutta evidenza i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sia in termini percentuali, sia in valori assoluti non rappresentano una parte della società oramai residuale, come troppa letteratura pretenderebbe raffigurare.

Un altro dato di un certo significato è rappresentato dall’incidenza dei lavoratori a tempo parziale.
I lavoratori a tempo parziale 3.256.000 sono il 14,17% degli occupati.
Tra i lavoratori dipendenti i lavoratori a tempo parziale sono 2.551.000 cioè il 14,86%; 2.057.000 sono i tempi parziali tra i dipendenti a tempo indeterminato, cioè il 13,59%; mentre i tempi parziali tra i lavoratori dipendenti a termine sono 494.000 cioè il 24,27%.
Da questi dati emerge che, nonostante la deregolamentazione del mercato del lavoro, permane una forza strutturata formata da 15.134.000 lavoratori a tempo indeterminato (fra tempi pieno e tempi parziali), ovvero l’88,14% dei lavoratori dipendenti.
Così di un certo interesse è il dato dei tempi parziali che arriva al 24,27% tra i lavoratori a termine, mentre si attesta al 13,59% tra i lavoratori a tempo indeterminato. Ciò evidenzia il fatto che la precarietà alimenta precarietà, e pur non avendo dati si può presupporre che lavoro a termine e tempi parziali si addensano in quei settori e in quelle mansioni dove basso è il contenuto di esperienza e di professionalità.
Complessivamente, invece, i lavoratori con contratti a termine ammontano a 2.035.000, cioè l’11,85% dei lavoratori dipendenti, dato che pur non assumendo dimensioni percentuali elevate, in termini assoluti pone alle organizzazioni sindacali un problema di rappresentanza e di tutela di questi lavoratori, che ad oggi sono pressoché disattese.  

Lavoro operaio, lavoro manuale, lavoro intellettuale (cognitivo)

I dati che esaminiamo di seguito non intendono confutare la tendenza all’ampliamento del lavoro cognitivo, ma molto più semplicemente vogliono far emergere il dato della grande incidenza che ha ancora oggi il lavoro strettamente operaio e manuale.
Peraltro lo sviluppo del lavoro cognitivo, oramai da un ventennio, ha ampliato l’ambito di estrazione del profitto; in altri termini è aumentato il numero dei lavoratori sfruttati nell’ambito dell’economia capitalista. I processi di privatizzazione e di esternalizzazione che hanno investito massicciamente la pubblica amministrazione, hanno consentito ad ingenti masse di capitali di trovare allocazione in questi settori dove il servizio offerto, finché pubblico, consumava finanziamenti pubblici, mentre con le privatizzazioni si ha la classica formula della valorizzazione del capitale: D-M-D1, dove nel caso specifico la M che sta per merce si deve intendere come S servizio. In altri termini ancora, potremmo parlare d’allargamento della proletarizzazione, intendendo con questo l’allargamento della base di estrazione del plusvalore.  

 

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Dalla tabella degli “Occupati per posizione professionale” emerge che la consistenza dei lavoratori dipendenti addetti nel settore industriale, sul complessivo dei lavoratori dipendenti ammonta al 31,30%, rappresentando in termine assoluto ben 5.374.000 persone, e di questi 1.206.000 sono addetti del comparto costruzioni, settore notoriamente ad alto contenuto di lavoro manuale.     
Inoltre gli 11.430.000 lavoratori dipendenti che risultano censiti nei servizi comprendono sia i lavoratori del trasporto merci, quindi direttamente collegati ai lavoratori dell’industria, sia lavoratori che in anni precedenti erano direttamente alle dipendenze delle aziende produttive, e censiti come lavoratori dell’industria, e che in conseguenza dei processi di esterrnalizzazione oggi vanno a gonfiare il settore dei servizi. Pensiamo per esempio ai lavoratori delle mense aziendali, agli addetti alle pulizie, ma spesso anche ai servizi di manutenzione e di progettazione. Così come in questo comparto troviamo servizi assimilabili al lavoro operaio come gli addetti all’igiene ambientale, o a quel comparto di bassissima tutela contrattuale delle cooperative sociali. Ed è sempre in questo comparto che sono censiti, quando lo sono, quei lavoratori, ma più spesso lavoratrici che formano i nuovi “schiavi” domestici. Collaboratori familiari e soprattutto badanti. 

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Fin qui abbiamo esaminato la consistenza della forza lavoro così come oggi è articolata. È emerso che il lavoro dipendente rappresenta un quoziente significativo della società italiana, ed in più, nonostante la furiosa disarticolazione del mercato del lavoro messa in atto negli ultimi decenni, il quoziente dei lavoratori stabili, lavoratori a tempo indeterminato e a tempo pieno, sono ancora oggi il settore largamente più consistente degli occupati. Questi dati ci consentono di fare alcune iniziali riflessioni. Quello che è radicalmente cambiato è il meccanismo d’ingresso nel mondo del lavoro. Nel passato, poi non troppo remoto, gli uffici di collocamento avviano al lavoro in base a liste d’iscrizione e, soprattutto nella grande impresa, la chiamata al lavoro non poteva essere nominativa, ma anche la dove si entrava con chiamata diretta, decorso il periodo di prova previsto nei contratti collettivi, la forma predominante era il lavoro a tempo indeterminato. Nel pubblico, salvo particolari situazioni, l’ingresso nel mondo del lavoro avveniva con concorso e, anche qui, decorso il periodo di prova, di solito non superiore a sei mesi, il lavoro diveniva definitivo. Tutto ciò oggi non esiste più. La fase d’ingresso nel mondo del lavoro è completamente gestita con ampi margini di discrezionalità dai datori di lavoro, siano essi pubblici che privati. La flessibilità sempre più ampia che viene richiesta è solo in minima parte collegata a situazioni strutturali di produzione, mentre è evidente che essa viene usata come elemento ricattatorio per il lavoratore, appeso per tempi lunghissimi all’incertezza dell’assunzione definitiva, e potente strumento in mano ai padroni per condizionare e selezionare una forza lavoro supina e docile.
Questa funzione di ricatto e di selezione appare ancora più evidente se andiamo ad esaminare le serie storiche degli occupati dal 1992 ad oggi. Questi dati ci consegnano un quadro sostanzialmente uniforme negli anni, nel senso che le oscillazioni sono estremamente contenute, salvo nel settore dell’agricoltura, dove i dati Istat registrano una pesante diminuzione di addetti. In questo settore però l’incidenza del lavoro nero, soprattutto di extracomunitari è sicuramente significativo.

Alcuni dati: I lavoratori dipendenti nell’industria nel 1992 ammontano a 5.595.000, oscillano sempre sopra i 5 fino al IV° trimestre 2003 dove registriamo 5.331.000 lavoratori ed infine ancora al I° trimestre 2009 il numero dei lavoratori dell’industria è di 5.374.000. Questo, secondo alcuni dovrebbe testimoniare la fine della classe operaia. Nelle costruzioni, settore censito nell’ambito complessivo dei lavoratori dell’industria, abbiamo avuto quest’andamento: 1992, 1.088.000 di addetti; IV° trimestre 2003, 1.098.000; I° trimestre 2009, 1.206.000, settore questo, come abbiamo già segnalato, prettamente operaio e manuale.
In agricoltura gli addetti passano da 699.000 del 1992 ai 365.000 del 2009, in questo settore è significativa anche la presenza di lavoratori indipendenti, ma complessivamente la riduzione degli addetti ha investito tutto il settore. Si passa, infatti, da 1.539.000 del 1992, agli 845.000 del 2009.

Le persone che stanno dietro questi numeri sono i nostri interlocutori, e la loro condizione e i loro bisogni dovrebbero rappresentare il terreno di costruzione di un rinnovato progetto di cambiamento sociale.

I dati e le tabelle sono tratti dal sito dell’Istat.               
21/10/2009

Dello stesso autore: La fine del Lavoro Aprile/Maggio 2002